Ieri davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Busto ha parlato anche Michele Caglioni, il secondo imputato per l’omicidio di Andrea Bossi avvenuto a Cairate nel gennaio 2024.
Omicidio Bossi, la nuova versione di Caglioni
Una versione dei fatti profondamente diversa da quella portata alla sbarra poco prima dell’altro imputato Douglas Carolo. Diversa nelle premesse, ovvero sui tempi e sulla natura dell’amicizia fra i due (fatta di vicinanza e confidenze per Carolo, basata sul bisogno di protezione per Caglioni) sorta e cementificata una canna dopo l’altra a casa di un amico comune, la “base” di quella compagnia che passava le giornate fra spinelli e partite alla Playstation. E diversa, soprattutto, nell’epilogo: su chi abbia ucciso (e come) Andrea Bossi.
La versione di Caglioni, però, si è allontanata non solo da quella dell’altro imputato, ma anche da quella portata alla corte nelle scorse udienze dalla sua fidanzata di allora, da quella che lui le aveva riferito e da quella che sempre lui aveva dichiarato sia al GIP in sede di interrogatorio di garanzia, sia al PM quando si fece interrogare di sua sponte. Tante versioni diverse, contrastanti e contraddittorie. Una sola (forse) quella vera. “Quella di oggi”, ha assicurato.
“Dovevamo fare un furto”
Nessun piano premeditato per ucciderlo, come invece aveva raccontato la sua fidanzata (riferendo quello che lui le avrebbe detto già da dicembre). L’idea, ha spiegato Caglioni, era di derubare Bossi, che lui conosceva solo come “il ciccione” di uno o più fantomatici borsoni pieni d’oro dal valore di oltre 100mila euro. Idea di Carolo, espressa nella “tana” della compagnia in precedenza.
“Diceva che sapeva come e dove li spostava”, ha riferito Caglioni.
Nel racconto di Caglioni, Carolo avrebbe tentato il colpo il giorno prima con un altro amico, a vuoto. Poi, il 26, “arruolò” Caglioni.
“Avevo un debito con lui per la droga, gli dovevo 150 euro – ha raccontato – Gli avevo detto che l’avrei pagato a fine mese, appena ricevuto lo stipendio. Ma quella mattina (il 26), scoprii che non avevo superato il periodo di prova. Lo chiamai, gli dissi che non potevo pagarlo e lui mi disse di andare là che avremmo fatto ‘quel lavoro’ al ciccione”.
Il “piano” sarebbe stato quello di arrivare a casa di Bossi, far salire Carolo che avrebbe dovuto far allontanare la vittima con la scusa e, con la casa libera, prendere il borsone e consegnarlo a Caglioni che aspettava al portoncino d’ingresso, e che sarebbe poi fuggito, da solo, con l’oro a bordo del monopattino.
Invece, dopo che Bossi uscì da solo, la seconda volta, per andare al distributore di sigarette, sarebbe rientrato prima che Carolo portasse la borsa a Caglioni che lo aspettava.
“Ero giù a fumare, ho visto passare il ciccione che mi ha chiesto se dovessi entrare – ha raccontato – Gli ho detto di sì, appena finivo di fumare. A quel punto sono andato nel panico”.
Panico che lo avrebbe “bloccato” per alcuni minuti, non facendogli rispondere a una chiamata di Carolo. Poi, “per assicurarmi che fosse tutto a posto”, Caglioni salì le scale. Non sapeva quale fosse l’appartamento di Bossi, ma trovò una porta socchiusa, attraverso la quale avrebbe visto “Douglas che cercava di strangolare Bossi da dietro, col braccio destro. Nella mano sinistra aveva un coltello da cucina, che quando mi ha visto gli ha piantato in gola”.
Sempre nella versione di Caglioni, l’amico a quel punto avrebbe rivolto il coltello contro di lui, tirandolo dentro a forza dell’appartamento e poi puntandoglielo alla schiena per portarlo di stanza in stanza a recuperare le cose che potevano collegarlo alla scena: spazzolino, preservativo, posacenere, bicchiere… E tutto l’oro che la vittima aveva addosso.
Sempre coltello puntato, la fuga con sosta nelle cantine in cerca del fantomatico borsone d’oro. Poi nei campi, a gettare e nascondere le prove, e verso la casa dell’amico a Cassano per mettere in carica il monopattino. Nel tragitto, il coltello sarebbe stato gettato in un tombino.
“Ero costretto, avevo paura”
Tutto quello che successe dopo, ha raccontato Caglioni, era sotto minaccia. Prima del coltello, poi delle parole di quel ragazzo “celebre” per essere uno forte e senza paura. Pronto a tutto. Dallo scambiarsi gli abiti prima del prelievo al bancomat di tutto ciò che Bossi aveva sul conto, solo 350 euro, al giro ai Compro Oro per vendere la refurtiva, al segreto e alla “finta verità” da raccontare ai carabinieri: non un furto andato male, ma un piano premeditato da tempo per sequestrare Bossi, farsi dare i codici delle carte, portarlo in un campo, ucciderlo e dar fuoco al cadavere. La finta verità che l’indomani Carolo avrebbe raccontato alla fidanzata.
Paura con cui Caglioni ha spiegato anche le versioni discordanti rese a GIP e PM: paura “di dire la verità”, di “finire in carcere”, di “tirar dentro altre persone”. Paure dietro le quali ci sarebbero state le minacce di Carolo fatte quella sera:
“Se non lo fai ti ammazzo, ti faccio fare la stessa fine di Andrea”.
“Non parlarne con nessuno perchè c’è sempre qualcuno fuori casa tua, della tua ragazza, dei tuoi genitori e dei tuoi nonni”.