Sequestro Mazzotti, 50 anni dopo inizia il nuovo processo a Como
Quattro gli imputati al processo che partirà a settembre in Corte d'Assise a Como. Tra loro, anche un 79enne residente nel Tradatese
Cinquant’anni dopo, un altro tentativo di trovare la verità e di dare giustizia. E’ stato fissata al 24 settembre la prima udienza del processo sul sequestro e la morte di Cristina Mazzotti, 18enne rapita nel 1975 dall’Anonima Sequestri e ritrovata cadavere in una discarica di Galliate Lombardo, nel Novarese, dopo una lunga prigionia e nonostante il miliardo di lire pagato dalla famiglia come riscatto.
Sequestro Mazzotti, in quattro a processo
Processo che vede imputate quattro persone: il 68enne residente nel novarese Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia, ritenuti vicini alla ‘ndrangheta, e il 79enne originario di Africo e residente da decenni a Tradate Giuseppe Morabito (omonimo del boss della ‘ndrangheta).
Tutti, secondo i fascicoli, coinvolti in prima persona in quello che fu il primo rapimento in Italia di una donna al fine di ottenere un riscatto, "con apporti causali anche distinti ma comunque convergenti e in attuazione di un comune progetto criminoso".
Il processo sarà celebrato in Corte d’Assise al Tribunale di Como, di competenza territoriale per il rapimento avvenuto a Eupilio il 30 giugno del 1975.
Non è la prima volta che il nome di Morabito è stato collegato al "cold case" comasco: nel 1994 le intercettazioni raccolte nell’ambito dell’indagine "Isola Felice" sulle ramificazioni della criminalità organizzata in provincia di Varese, fecero emergere un possibile collegamento, col Morabito "possibile" ideatore del rapimento insieme a Giacomo Zagari e che insieme a lui si sarebbe "tirato indietro" dopo il sospetto che nel gruppo vi fosse un "confidente". Entrambi, all’epoca, vennero ritenuti "non imputabili». E allora come oggi Morabito si è dichiarato e si dichiara innocente ed estraneo a quanto successe il 30 giugno del 1975.
Cos'era successo
Quella sera, un commando fermò l’auto su cui Mazzotti viaggiava insieme al suo ragazzo e a un’amica, di ritorno dai festeggiamenti per il diploma. Sulla loro strada si parò una Fiat 125 con a bordo due uomini a volto coperto: fecero salire dietro i tre ragazzi, testa tra le gambe e silenzio. Dopo una quarantina di minuti, fatti scendere i giovani, uno dei due uomini chiese chi fra loro fosse Cristina. Lei si fece subito avanti, venendo incappucciata e caricata su un’altra auto.
Fu l’ultima volta che qualcuno, eccetto i suoi rapitori, la vide viva.
Quello che successe dopo è stato cristallizzato negli anni fra processi, indagini, confessioni e racconti di varie parti: la ragazza venne portata in una cascina a Castelletto Ticino e gettata in una buca profonda e larga circa un metro e mezzo e lunga poco più di 2 metri e mezzo, con solo un tubo di plastica per il ricambio dell’aria.
Il 4 luglio la chiamata al padre e la richiesta di 5 miliardi di lire. Troppi per la famiglia Mazzotti, che solo a fine mese, dopo aver ipotecato la casa, riuscì a mettere assieme circa un miliardo e mezzo. Per tutto quel tempo la ragazza era stata tenuta in quella buca, tenuta sedata o drogata con eccitanti quando c’era bisogno fosse "attiva" per scrivere o telefonare alla famiglia e chiedere di pagare. I soldi vennero consegnati il 1 agosto, nei boschi di Castelseprio.
Lei però era morta il giorno prima, e solo il 1 settembre grazie a una telefonata anonima si poté trovare il corpo, seppellito «accanto a una carrozzina rotta» alla discarica di Galliate.