Storie sotto l'ombrellone

A 18 anni ricoverata nel reparto Covid: "Grazie a medici e infermieri che, pur stremati, lottano per noi"

Il dramma della solitudine e il coraggio dei medici Martina Bertin, lo scorso aprile ricoverata al Galmarni racconta la sua esperienza

A 18 anni ricoverata nel reparto Covid: "Grazie a medici e infermieri che, pur stremati, lottano per noi"
Pubblicato:

 

A 18 anni è stata ricoverata per una peritonite ed è finita nel reparto Covid: ««Solo chi vive in questi reparti può capire il dramma e i sacrifici di chi vi opera, le uniche ancore di salvezza dei malati. E’ stata una lezione di vita, mi ha fatta crescere e mi ha dato ancora di più la forza di credere nei miei sogni»». Ha deciso di raccontare la sua esperienza a La Settimana  che ha vissuto lo scorso aprile accendendo i riflettori della gratitudine sul personale medico e infermieristico. Un'esperienza che condividiamo ora coi lettori di PrimaSaronno.

A soli 18 anni ricoverata nel reparto Covid, l'esperienza della tradatese Bertin

Ha solo 18 anni e per una appendicite aggravatisi in peritonite ha vissuto sette giorni nel reparto Covid del Galmarini, un’esperienza durissima a contatto con la sofferenza, il dolore dei pazienti isolati, lontani dai propri affetti anche nell’ultimo sospiro, ma anche con la grande umanità, di quell’esercito di medici e infermieri che pur stremati da turni massacranti e dallo stress psicologico, ogni giorno, da ormai un anno, si presentano col sorriso dai malati «pronti a lottare per noi e con noi». Martina Bertin ha trovato il coraggio di raccontare la sua esperienza per ringraziare l’equipe del reparto Covid del Galmarini.

Dal Ps all'operazione per peritonite

Bertin è arrivata in Ps con dolori lancinanti nella notte del 5 aprile. «Sono rimasta sulla barella per tre giorni, perché non c’erano letti liberi, in attesa dell’esito degli esami diagnostici e del tampone rino faringeo risultato poi positivo. Al pronto soccorso sembra di stare in quelle grandi metropoli dove la gente non si ferma mai neppure di notte, con gente che chiede aiuto, medici che corrono da un corridoio all’altro, infermieri che cercano di controllare i pazienti: è un vero caos. Il personale cerca di fare il possibile per alleviare il dolore di quegli anziani, soli, con l’incapacità di usare il cellulare e con il terrore negli occhi mentre gridano disperati perchè si sentono soffocare». Bertin a soli 18 anni si è trovata ad affrontare la sua e la sofferenza dei malati Covid, realtà lontana dalla quotidianità di un giovane. In quelle ore le sue condizioni sono però peggiorate e ai dolori atroci all’addome si sono aggiunti brividi e febbre alta. La svolta nel pomeriggio dell’8 aprile: Bertin dev’essere operata d’urgenza. L’ospedale di Varese però è full e così viene allestita la sala operatoria: lei è la prima ad inaugurare la chirurgia Covid. Tre ore di intervento. «E’ andato tutto bene», la telefonata dei medici ai genitori ha stemperato ore infinite di angoscia e d’ansia.

Nel reparto Covid: "Ho visto scene che non auguro a nessuno"

Una prova estenuante anche per loro: attaccati al ricevitore di casa in attesa di uno squillo, quell’unico filo di speranza e di legame con la figlia sola in una stanza d’ospedale senza l’affetto di una madre o di una padre vicino e il loro sorriso incoraggiante mentre le porte della sala operatoria si chiudevano. Ma questo non è nulla a confronto di ciò che la 18enne ha vissuto nei successivi sette giorni di ricovero nel reparto Covid . «Ho dovuto vedere scene che non auguro a nessuno.
Una scena che porterò per sempre con me e che mi ha fatto riflettere molto è stata quando nella camera di fronte alla mia avevo una coppia: lui 68enne aveva il casco mentre lei, 65enne solo la maschera dell’ossigeno. Alla sera l’ ho sentito piangere dopo la notizia che il marito non ce l'avrebbe fatta, l’ossigeno non gli sarebbe bastato e sarebbe morto da un momento all’altro… Pur non conoscendoli sono scoppiata a piangere: quell’uomo stava morendo senza poter riabbracciare i suoi figli. Aveva però la moglie e per lenire il suo dolore, gli infermieri hanno spostato i letti così che potessero tenersi per mano. Sentivo che diceva al marito quanto lo avesse amato per tutta la vita e che si sarebbero ritrovati insieme in Paradiso». Martina riflette, provata: «Quella coppia in quel tragico momento almeno era insieme, mentre altre si ritrovano completamente sole senza avere la forza di chiamare i parenti per fare un ultimo saluto. E’ disarmante per chi è a casa in attesa di una telefonata dal personale medico e chi nel letto d’ospedale non ha la forza di parlare, nella consapevolezza straziante di non avere accanto a sé le persone care. Io ero la più giovane del reparto e ho cercato di rassicurarli e e confortali come potevo». E in tutto questo ci sono loro: i medici e gli infermieri «costretti a vivere costantemente col dolore per chi non ce l’ha fatta e con chi sta ancora combattendo contro il virus, tentando di lenire la sofferenza e nonostante tutto andare avanti, perchè sanno che quella è la loro missione».

 

Gli "Angeli" del reparto

E poi ricordando la sua esperienza: «Cercavo di non disturbarli per cose futili perché avevano molto da fare, ma loro c’erano sempre. Entravano in stanza e con un ‘Va tutto bene?’ mi facevano sentire meno sola. Una sera che stavo male perché avevo vomitato tutto il giorno mi avevano portato la pastina. Un’infermiera vedendo la mia faccia è andata a cercarmi un piatto di pasta senza che glielo chiedessi. Un piccolo gesto che fa capire quanto siano altruisti, un picco gesto che mi ha aiutato a star meglio. Ed è proprio vero il detto che la felicità sta nelle piccole cose, perché ho superato questa esperienza per queste piccole attenzioni che ti davano la forza di proseguire.
Come il fatto di chiamarci per nome per non farci sentire un paziente ma una persona, per loro importante. Sono loro, infatti, che ci danno la forza, ci spronano a farcela anche quando non ce la fanno più. Indubbiamente senza di loro in questo anno non ce l’avremmo fatta. Devono affrontare turni di dodici ore con una tuta che li copre dai piedi fin sopra la testa, la mascherina, la visiera e quattro strati di guanti che impediscono quasi di riuscire a sentire le vene dei pazienti. Eppure, anche se sono stremati, riescono sempre a dedicarsi a pieno al proprio lavoro, a regalare un sorriso ai pazienti, come me, che non ce la fanno più, che non sanno se e quando potranno tornare a casa e rivedere i propri cari. Dobbiamo essergli grati, ricompensarli anche rispettando le norme, perché solo così potranno prendere fiato».

In una lettera ringrazia il personale ospedaliero e lancia un appello

Bertin ha inviato una lettera a quegli “angeli” per ringraziarli: «So che un grazie non basta, ma sappiate che rimarrete nel cuore dei vostri pazienti perché siete stati la loro ancora di salvezza in quei giorni in cui si avrebbe voluto solo scappare». Una lettera che ha commosso medici, insegnanti, compagni della 4 del liceo scientifico Geymonat, una lezione di vita per tutti: «Siamo convinti che solo stando in casa, facendo il vaccino si possa superare questo virus maledetto, che all’inizio sembrava una banale influenza, ma quando si osserva come riduce le persone ci si rendete conto che non lo è per niente. – chiosa Bertin rivolgendosi soprattutto ai coetanei ben lontani dal dramma di questo virus - E poi ci si lamenta del lockdown, ma se non vivi in questi reparti non puoi capire cosa sta succedendo. L’esperienza in un reperto Covid ti cambia la vita - conclude - . La porterò sempre con me, perché mi ha insegnato molto, mi ha fatta crescere e mi ha dato ancora di più la forza di credere nei miei sogni, vorrei diventare una veterinaria, perché con la buona volontà si può fare tutto».

Annalisa Conti

Seguici sui nostri canali