Francesca Picozzi, psicologa clinica saronnese, «racconta» le sfide degli adolescenti di oggi grazie ai social
Ha aperto un account Tik Tok durante il lock down e da allora i suoi video spopolano tra i più giovani. L’esperta definisce i ragazzi di oggi «la generazione dei coraggiosi».
Francesca Picozzi, psicologa clinica di Saronno, «racconta» le sfide degli adolescenti di oggi. Ha aperto un account Tik Tok durante il lock down e da allora i suoi video spopolano tra i più giovani.
Intervista a Francesca Picozzi che grazie ai social racconta i giovani
«Mi piace parlare di me come di una giovane adulta, molto appassionata di cose diverse, sono creativa e sono riuscita a fare della creatività il mio faro, che mi aiuta ad incontrare anche i pazienti più giovani, parlando di salute mentale anche sui canali social».
Così inizia il nostro incontro con Francesca Picozzi, saronnese, 29 anni, psicologa clinica specializzata in consulenza sessuale che ha aperto un account TikTok durante il lockdown del 2020, e da allora i suoi video spopolano tra i più giovani.
«Mi occupo di psicoterapia per giovani adulti e adolescenti, con un’attenzione particolare alla comunicazione. Specie sui social, avendo a cuore i percorsi dei giovani a cui cerco di lasciare traccia».
Il 10 ottobre scorso, è stata celebrata la Giornata mondiale della salute mentale, perché è importante parlarne con gli adolescenti?
«Oggi gli adolescenti sono la fascia d’età che sta soffrendo maggiormente, questa adolescenza è diversa da quelle precedenti per tutti quei fattori di rischio che prima non c’erano. E’ una generazione con tante potenzialità, io la chiamo “la generazione dei coraggiosi”, perché si tratta di ragazzi estremamente intelligenti che percepiscono le emozioni con più forza. E’ importante parlare di salute mentale perché purtroppo c’è tanta disinformazione, bisogna parlarne bene e con competenza, dedicandosi alla fascia d’età più sofferente in questo momento. Per i terapeuti di oggi è quasi un obbligo».
Perché i giovani sono così tanto cambiati, quali sono le possibili cause di questa loro sofferenza?
«Sono tante le concause che hanno portato a questo momento. L’istituzione famiglia, generazioni di genitori a cui magari è mancato tanto e, come atto di amore, vogliono dare tutto ai figli. E questo dare tutto a volte rischia di far sentire i ragazzi “ingozzati”, forti di potersi nutrire di tutto e quindi di niente. Anche l’istituzione scuola, con il suo sistema molto rigido. L’adolescenza è un periodo in cui i ragazzi devono scegliere il percorso da seguire, devono capire che cosa piace loro fare. C’è una pressione scolastica sul “dopo”, più che sul momento. Ci sono sempre stati percorsi di studi più rigidi rispetto ad altri, però sembra che il fil rouge sia proprio quello di avere una prospettiva sul futuro che mette una grande pressione agli adolescenti che non c’era prima, si manifesta così un doppio pregiudizio verso scuole diciamo “più semplici”. Inoltre, il fattore digitalizzazione ha condizionato tantissimo la generazione Z, nata e cresciuta con i social. Manca una regolamentazione legislativa efficiente, ci sono ragazzi al di sotto dei 13 anni con un profilo social. Questo ha creato problematiche, confronti anche in giovane età con dei modelli che vengono presentati in modo tossico sui social dai coetanei, ma anche dagli adulti. Viene minato il percorso scolastico, ma anche l’aspetto fisico».
Sono di questi tempi fatti di cronaca che vedono ragazzi e ragazze protagonisti. Quai sono le sofferenze maggiori?
«Basandomi sulla mia esperienza clinica e su quello che vedo sui social, le sofferenze maggiori sono l’ansia - termine che racchiude un po’ tutte le altre - e gli attacchi di panico, che arrivano improvvisamente in un momento di assoluta tranquillità a causa di un accumulo di emozioni che ha fatto poi scoppiare la persona. Poi abbiamo i disturbi alimentari, perché il corpo è sempre più al centro dell’attenzione mediatica e c’è sempre un occhio adulto giudicante. Si sta abbassando l’età di questi disturbi, e per la clinica è un fatto molto grave: abbiamo preadolescenti ricoverati per anoressia a partire dagli 11 anni. E anche se rimane un rischio prettamente femminile, adesso la percentuale maschile si sta alzando di parecchio. Viene perseguito un modello irrealistico del corpo dato dai social, dalla pubblicità, dalla moda, dalle serie tv che vengono proposte. Segue il tema dell’affettività e della sessualità quindi dell’incontro con l’altro. Sembra una generazione che sa tutto, sono giovani aperti ai temi di genere, ai temi della sessualità, ma sono molto in difficoltà a incontrarsi. L’incontro con l’altro, che sia sessuale o affettivo, li mette molto a disagio proprio a causa della continua comunicazione tramite chat o whatsapp. Questo ha contribuito a creare una barriera. Se non si vuole più sentire una persona la si blocca, si “ghosta” o non si risponde ai messaggi, ma di persona questo non si può fare o quantomeno diventa difficile. Una problematica che viene nascosta è l’autolesionismo. Questa è una forma di richiesta d’aiuto che ragazzi e ragazze mettono in atto per cercare di dare forma a un dolore sconosciuto. “Il mio dolore non ha senso, non ha forma, non capisco cosa sia, se lo trasformo in un dolore fisico è come se lo facessi fluire in una forma più comprensibile”. E’ questo il pensiero dei ragazzi e diventa qualcosa di continuativo finché non viene affrontato il trauma scatenante».
Di fronte a queste importanti problematiche cosa possono fare la famiglia, la società e anche le istituzioni? Come possono aiutare?
«Partiamo dal nucleo famigliare. Mi piace utilizzare la metafora del “faro”. Il genitore o chi ne fa le veci, il care giver come si dice in psicologia, insomma l’adulto di riferimento deve essere sempre presente, deve far saper attivamente al giovane che c’è. “Se hai bisogno, io ci sono” è la frase da dire ai ragazzi. Saranno loro ad avvicinarsi, consapevoli di trovare la luce che indica il percorso migliore da seguire. Per quanto riguarda invece le istituzioni, il discorso è più difficile, perché rientrano anche aspetti politici ed economici. Si deve puntare a creare un ambiente migliore anche per gli insegnanti che si trovano di fronte ad una generazione per cui non sono stati preparati. Quindi ben vengano corsi di aggiornamento specifici sulle tematiche giovanili, ben venga lo psicologo scolastico che faccia da intermediario. I ragazzi fanno richieste di confronto con i loro insegnanti, è un passaggio di crescita verso cui si deve essere preparati».
I ragazzi allora riescono a salvarsi da soli?
«Dipende dalla gravità della situazione, quando parliamo di psicopatologia non è mai la qualità, ma la quantità del disturbo. Avere tratti disfunzionali non significa avere un disturbo, ma quanto questi tratti siano persistenti e quanto condizionino la vita quotidiana. Se c’è un’apertura da parte dei ragazzi e dall’altra ci sono adulti attenti e presenti, è bene proporre anche un aiuto esterno che non deve spaventare e non deve creare pregiudizi».
Nel suo ultimo libro «Perché sei qui?» Francesca Picozzi racconta, con una modalità fresca, sotto forma di graphic novel, sei storie di adolescenti e giovani adulti, affrontando con l’efficacia delle illustrazioni, importanti temi che riguardano la salute mentale dall’ansia, agli attacchi di panico, all’autolesionismo, alla sessualità, alla paura del futuro, alla terapia. Un libro che tratta di salute mentale rivolto agli adolescenti e anche agli adulti.
Egle Prada